29.11.24

IL FIORE AZTECO / GIORDANO VEZZANI


 "Dopo l'intervento dell'amica Anna Verlezza, che ha commentato in diretta Il fiore atzeco di Gustavo Nielsen nella traduzione di Gianni Barone, mi è davvero difficile aggiungere qualcosa di nuovo. Tuttavia ci proverò lasciando andare i pensieri in libertà, senza pretese, perché il libro esige considerazione e non merita di essere trascurato o ignorato. Non riassumerò la trama, ma solo alcune impressioni generali.

Il titolo ricorda un numero classico di prestidigitazione, dove una donna viene tagliata in due parti con una grossa sega. La donna dimezzata ricorda la metafora della colpa originale che, in un'ottica patriarcale, sarebbe insita nell'ambiguità naturale della donna, in quella che è la classica dicotomia tra donna angelicata, spirituale e trascendente /vs/ donna tentatrice, carnale e immanente. In una società fortemente caratterizzata da certi valori tradizionali latini, non stupisce che il giovane Fabio, in piena turbe ormonale adolescenziale, sia combattuto tra desiderio e senso del peccato, tra purezza e sporcizia, tanto da scegliere il disimpegno fuori dalla realtà, in una femmina dimezzata che rappresenti l'appagamento fai da te, il sesso facile, quello che fan tutti. Infatti la masturbazione è la costante del romanzo, almeno finché non si perviene a una risoluzione del conflitto, ma per quello bisogna leggere il finale del libro. La masturbazione è la droga di Fabio per distaccarsi dal malessere, per autopunirsi o gratificarsi a seconda degli eventi, ma è anche sublimazione del sesso, una rinuncia all'altro, quello degli adulti, per senso di inadeguatezza. Il protagonista nella scoperta del proprio corpo e nella sua crescita non è solo. Il suo amico Carlos lo accompagna e gli fa da contraltare. Carlos è dei due quello meglio equipaggiato, dei due è lui quello dominante, almeno finché una tragica malattia capovolge le sorti e il protagonista può così cominciare il suo riscatto, attraverso un personale calvario.
Fabio a suo modo è un ribelle passivo, uno che resiste alle storture della vita, e per farlo sceglie una visione barocca del mondo dove ciò che appare non è vero. Nella scelta del suo gioco, che poi diventa un modo di essere, la prestidigitazione, il ragazzo mette in contrapposizione le contraddizioni, gli inganni, dell'esistenza. Mi riferisco ai valori ingannevoli che accompagnano la vita delle persone che lastricano la strada delle loro esistenze con valori come il successo, l'amor patrio o il lavoro sicuro sotto l'ala dello Stato, convinte di godere di una felicità o anche di una realizzazione di sé, ma che in realtà non fanno altro che praticare un diverso onanismo, portatore di frustrazioni. Certi valori nel libro sono visti come squallidi quando portano a inutili guerre (la guerra delle Falkland) e al dolore (perpetrato nelle madri di Plaza de Mayo) o quando sono inutili carrozzoni burocratici statali che ingannano la povera gente. E l'inganno è un po' il tema che attraversa il libro, che si fa appunto autoinganno personale e sociale di cui la masturbazione è metafora. Anche Carlos inganna, anche lui ribelle passivo per appartenere a una categoria sociale emarginata, e rifiuta il sistema ingiusto e sostanzialmente repressivo. Nel gioco degli archetipi letterari è l'aiutante che si fa vittima per permettere al protagonista di crescere, di andare avanti. Alla fine, mi pare, gli unici valori che si salvano sono gli affetti famigliari e l'amicizia, l'amore, gli unici che danno senso alla vita, anche se spesso li si scopre per sottrazione, per la loro mancanza. Forse a qualcuno una visione conclusiva di questo tipo può sembrare riduttiva e banale, ma io non lo credo, perché, sempre secondo me, per sentirci umani non abbiamo così tante altre opzioni."

28.11.24

IL FIORE AZTECO, LIBRO GUERRIERO / PAOLA RAMBALDI


“Soggiogato dal fascino della magia e dalla procacità della sedicenne Maria Marta, sorella di Carlos, Fabio resterà per sempre ossessionato dal Fiore Azteco, la famosa donna tagliata in due dall’ombelico in giù, trovata a pagina 226 del libro usato da cui attinge trucchi e dialoghi per i suoi spettacoli.
Un mezzo corpo esposto su un tavolino, che lo fissa sorridente a braccia conserte.
La stessa magia che sogna di realizzare in uno spettacolo tutto suo, un giorno quando diventerà famoso.
Seguiamo la storia dei due, dalla fanciullezza alla maturità, raccontata da un Fabio straniato dalla realtà, nella sua fissazione erotica per quell’immagine del Fiore azteco appesa in bagno che per anni lo accompagna nei migliori momenti della giornata. Un’immagine impastata di tenerezza e cinismo con cui intrattiene i migliori rapporti con sé stesso.
A 11 anni si esibisce con frasi imparate a memoria dal libro suscitando le grasse risate dei vicini, con la nonna che gli fa da assistente. E non demorde nemmeno quando sperimenta il trucco dell’uomo segato in due grazie a Carlos, che è in grado di rannicchiare le gambe in piccoli spazi in una cassa ritraendo le ossa del bacino. E le magie continuano tra mille complicazioni, sbirciando i seni di Maria Marta, fino a quando a 18 anni i due amici vengono mandati militari in una base navale e spediti a combattere. E mentre Carlos la prende male e si ammala, Fabio resiste, grazie al fiore azteco che seguita ad apparirgli in sogno, continuando a esercitare trucchi per i commilitoni e scrivendo le lettere d’amore per le loro fidanzate. In una realtà frustrante e violenta fatta di soprusi, corruzione e lotta per la sopravvivenza la magia resterà la sua unica via di fuga. L’unico mezzo per distoglierlo dalla realtà, soprattutto quando l’amico Carlos verrà ricoverato in ospedale.
Un’immagine insolita dell’Argentina per un romanzo di formazione intriso di humor e nostalgia.
Ironia, comicità spudorata, fantasia visionaria negli anni più tragici della repubblica Argentina presentati senza sconti in modo assurdo e allucinato.

Il fiore azteco diverte e commuove e Gustavo Nielsen è una bella scoperta. Egregiamente tradotto da Giovanni Barone che ha vissuto nove anni in Argentina operando in contesti culturali e che è da sempre innamorato della sua letteratura e dei suoi maestri che si distinguono per originalità e acutezza di pensiero. Da leggere sicuramente.”


27.11.24

ILFIORE AZTECO EN ROMA / ANNA VERLEZZA LEE PARA TEMPESTA EDITORE

 La scrittrice Anna Verlezza ci parlerà del romanzo di Gustavo Nielsen "Il fiore azteco" e ne leggerà alcune parti.


26.11.24

EL ARISTON EN COMPETENCIA / 39 FESTIVAL DE CINE DE MAR DEL PLATA

 


Crítica de “El Ariston”, documental de Gerardo Panero (Competencia Argentina) - #39MarDelPlataFF


25.11.24

EL ARISTON DE MARDEL





















 "Con la actuación estelar de Moira Sanjurjo en el papel de La Doctora, Hugo Kliczkowski como Huguito de Madriz y la participación inigualable del arquitecto Nielsen haciendo de escritor. Todo registrado por la cámara inquieta de Gerardo Panero." 10 puntos, The New Yorker.

"Playera y mágica, grandes actuaciones", Babelia.

"El documental de la década. Impecable Sanjurjo", Le Nouvel Observateur.

"Klizkowski en su máxima expresión. Nielsen ahí nomás. Gran documento de nuestra época.", Le Monde Diplomatique.

"No se pierdan esta aventura de Marcel en Mardel. Argenta y excelente. Para ver en ojotas." Charly Hebdo.

22.11.24

DÉCIMO PRIMER ENCUENTRO DE LA CLÍNICA DE CUENTOS DEL GALPÓN / MARATÓN

Orgullo personal: somos un grupazo: Lili, Fabián, Memi, Pablo, Fabiana, Jonatan, Gaby, Mariano. Impecable. Tuve que pedir ayuda culinaria por semana estresante a pico máximo y todos aportaron en un picnic maravilloso, del que quedaron algunos vinos para la próxima. Ni me preocupé y la cena fue copiosa y delicada: tabla de quesos y fiambres, cherrys con cerezas, cherrys sin cerezas, dos tortillas españolas, masitas crocantes de queso y pan. ¡Hasta hubo postre! Y de lujo. Uno que pidió una escritora que yo conozco como última cena, y que saboreamos anoche como gualicho para no olvidarla jamás.



Iba a leer “Anteúltima cita”, de Elsa Drucaroff, por título y por buen cuento, pero fuimos directamente a los trabajos del día, que se habían acumulado un poco. Así que el de Druky queda para tarea en el hogar (una pena que no haya podido venir, pero la Clínica coincide con su taller de los miércoles; ya probaremos invitarla otro año). Con los textos que había, nomás, se nos extendió la reunión una media hora. O tal vez fue que quisimos quedarnos un ratito más. Vamos por orden:

“La persona que te enseñó a andar en bici”, de Jonatan. Un cuento muy logrado, al que simplemente hay que quitarle frases innecesarias que sobreexplican acciones. Muy bien Jonatan: aprovechó su viaje en Cabify con Sylvia Iparraguirre, el día que la acompañó, para sacarle tips de escritura que le sirvieron mucho.

“La voluntad de los cuadros”, otro buen cuento de Lili, en la línea santa que nos tiene acostumbrados. Debe estar preparando nuevo libro, shhhh. Le saca una frase al final y da perfecto.

“La muñeca rota”, uno breve de Memi. Psicológico, con el recuerdo de una Marilú de infancia. ¿Quién la rompió? Enigma. Con solamente hacerle una buena limpieza de diminutivos ya va a quedar más claro.

“Fiambre”. Pésimo título para un excelente cuento de Fabiana. Algunas frases están al revés y hay alguna torpeza en el final, pequeños detalles a componer para cerrar una joyita. Buen tono.

“El agujero”, otra obra que se nota muy corregida. Ambiente de guerra oscuro, contado desde una mirada infantil. Bien manejada la ubicuidad en los espacios: la cancha de fútbol, el galpón, el pozo. Fabián ya está maduro como para publicar su primer libro, como hicieron Lili, Mariano, Fernando y otros que pasaron por la Clínica. Felicitaciones.

“A quién le importa lo que es de nadie”, de Gaby. Un paseo por las fieras de Lincoln. Le sobran algunos personajes y necesita corregirlo más, pero está bien orientado a partir de la pregunta clave que aparece enunciada en el título.

“Pablo”, de Mariano. Le objeté el final moralista y decidió explicarlo. En el contexto académico para el que fue escrito no suena mal, y él jura que funcionó. En la Clínica, como cuento aislado de circunstancia, renguea. Le tiene que cambiar el final o decidirse a aparecer, cuan fantasma, cada vez que alguien lo lee, a fin de contagiar emotivamente el contexto con la realidad de sus alumnos en la secundaria de la que es tutor.

“Huevos quimbo”, por Pablo. El cuento más dulce.




21.11.24

IL FIORE AZTECO / GIANNI BARONE

 

"Non amo parlare di libri che ho tradotto io (e che in qualche modo sento come miei): preferirei che lo facciano altri, ma stavolta farò un'eccezione. So che è sempre rischioso proporre autori inediti in Italia, anche se possono vantare una tradizione letteraria di altissimo livello come quella argentina, ma è un rischio che ho corso volentieri, cercando di puntare sugli aspetti forti della scrittura di Gustavo Nielsen: ironia, comicità a volte spudorata, fantasia visionaria, nel contesto degli anni più tragici della repubblica Argentina, presentati senza sconti nel loro aspetto più assurdo e allucinato. Mi piacerebbe che "Il fiore azteco" fosse accolto dai lettori con interesse perché è un romanzo che diverte e commuove e, soprattutto, prende le mosse da un'idea forte: in una realtà fatta di soprusi, corruzione, miseria morale e lotta per la sopravvivenza, meglio rifugiarsi nella magia e nel sogno come fa il maghetto Fabio fin da piccolo, anche se i sogni possono diventare ossessioni. Una posizione, questa, che quattro secoli fa fu anche quella dell'eroe di Cervantes che -per fuggire dalle miserie della realtà- sceglie di rifugiarsi nei mondi paralleli della follia. Pur nelle ossessioni e nelle monomanie, pur nelle relazioni irrisolte con l'altro, accettare la propria solitudine esistenziale -nell'impossibilità di lottare per il cambiamento- per Nielsen è meglio che soccombere a una realtà frustrante e violenta nella quale non ci si può né ci si deve riconoscere."

20.11.24

IL FIORE AZTECO / LA FLOR AZTECA

Llegó la tana desde Lucca y ahora está con su prima argentina, mate va, mate viene, conversando en la cocina. Las escucho desde acá. Que vivan las primas.

Gracias Gianni Barone y Tempesta Editore.



19.11.24

UNA RONDA ALREDEDOR DE LA NADA / YASMINA REZA EN LA AGENDA


Algunas consideraciones acerca de la obra “James Brown usaba ruleros”.

Para el psicoanálisis no hay gente normal. Si estás loco sos psicótico; el resto de la gente es neurótica. Para ser psicótico tenés que tener un delirio. Hice una consulta a mi amiga Silvia, que es médica, porque salí bastante confundido de la última obra de Yasmina Reza que se presenta en el Teatro Sarmiento, bajo la dirección (en el programa dice versión) de Alfredo Arias. La obra te deja pensando, como todo buen teatro. Además, entretiene; visualmente es muy atractiva. Pero en la visión inmediata simula padecer problemas narrativos: al salir sentí que le sobraba exposición y le faltaba profundidad. Con la exposición me refiero a que los personajes psicóticos, que parecen ser los principales en “James Brown usaba ruleros”, están muy bien enunciados, pero no pasan de ahí. En cambio, la pareja de padres -los neuróticos- se morfan la escena junto con los hermosos vestuarios y la inquietante escenografía.

Julio Suárez es quien diseñó el vestuario vintage colorinche, muy de cómic. Julia Freid, la escenografía, que es bien diferente de la francesa (gracias Pati Espinosa por el dato).

La escenografía de Julia está compuesta por tres vitrinas: son espacios de exhibición, como de museo, y pueden dar paso a dos supuestos. El primero: ¿serán vidrieras para mostrar los temas vigentes que le importan a la progresía actual, a la manera de Oscar Bony cuando en 1968 exhibió “La familia obrera” en el Instituto Di Tella? Los temas de ahora irían por el lado del cambio de sexo por autopercepción de haber nacido en cuerpo equivocado.  O (segunda opción): ¿estos habitáculos estarán construidos para la clasificación de los diferentes estados de locura, como los casilleros de un coleccionista de mariposas? Llego a esta segunda conclusión por el lado de que los psicóticos presentes en el núcleo de la obra no maduran; funcionan como objetos, aunque ocupen la casi totalidad de la platina del microscopio de Yasmina.

Después uno recuerda “Art” y sucedía lo mismo: el núcleo estaba vacío y los valores, las cuestiones, las reflexiones humanas importantes iban por afuera, haciendo la ronda alrededor de la nada.

La obra es con locos, no de locos. Reconozco que en la primera impresión me equivoqué: los internos que aparecen pintados en el texto y llegan incluso a ser graciosos, no son lo importante. Aunque sean llamativos.


JACOB Y PHILIPPE

Jacob tiene unos veinte años y desde los diez está obsesionado con la cantante Céline Dion. Tal es su obsesión que cree ser ella. Usa peluca, se viste como la estrella, da reportajes a una prensa invisible y entona afinadamente y de memoria su repertorio. La mimesis le ocupa todo el tiempo y la mente: es un caso de delirio crónico estable, también llamado monomanía, porque copia o se identifica con el esplendor de una persona real. Además canta bien. Los padres de Jacob lo llaman Pochi, o Pochito; fueron viendo el cambio en su crecimiento diario. Al principio lo creyeron un juego (el nene se hacía las pelucas con cinta de casets viejos), después se fueron preocupando y terminaron internándolo en un centro asistencial, con la esperanza de que la ciencia le devuelva a su niño original. Eso no va a pasar: la psiquiatra es re moderna, fanática de “La Cenicienta” y cree firmemente que siempre intimida romper la biología (con esta frase puede ser que Reza especule con que la doctora intenta asegurarse de que su caso no sea un problema de migración de género, para no quedar como políticamente incorrecta), pero se pone a favor de llamar Céline al paciente, abrazarla en la soledad de su fama y seguirle el juego de las canciones. Para nosotros, los espectadores que estamos viendo los detalles de la internación desde cerca, es una acción obvia. No para sus progenitores Lionel y Pascaline, que solamente van de visita.

La nueva Céline -según Silvia transita un delirio de grandeza evidente, como el clásico loco que se cree Napoleón- se hace de un amigo adentro del manicomio. Philippe es un joven blanco que se cree negro. Parece que cuando el delirio tiene que ver con el cuerpo se denomina “melancólico”, como el “Licenciado Vidriera” de Cervantes, o los casos de gente que cree no tener órganos, o carecer de sangre, aunque las demás cosas le funcionen relativamente bien. Este personaje está vinculado a aspectos botánicos, arbolitos que quiere cambiar de lugar o ayudar a crecer y que casi no tienen importancia. Es medio un caza bobos, aún más inamovible en sus razones que la propia Célíne.

La obra comienza el día en que los padres van a internar a Jacob. Estará contada con anécdotas triviales que se irán sucediendo, casi sketches, con mucho de vodevil francés. La referencia a la locura empieza a banalizarse con el tono, y el conflicto, que parece no querer crecer, se muda al del arte, en el que Yazmina es una experta. Cuando entendamos eso habremos entrado a la verdadera función.


CÓMO REFUGIARSE EN DOS O TRES CANCIONES

La escritora nos manda a ver, en los reportajes, a los que son sus personajes favoritos: Lionel y Pascaline. Sobre todo a él, el padre, en un rol ejercido desde la autocrítica. Lo más interesante de toda la obra se centra en la culpa de este señor. Para exponerla, Yasmina le hace contar un episodio en el que él se negó a pedir unas reposeras en un día de campo, y por eso su familia no pudo disfrutar de un descanso feliz. El episodio sucedió en el pasado y tiene que ver con la pusilanimidad de ese hombre que no sabe solicitar, ni dar propinas (el trauma se va a repetir en un gesto sencillo de entregar a la psiquiatra una caja de bombones para que reparta entre sus empleados -no lo va a poder hacer). Lionel se echa toda la culpa de la fragilidad mental de su hijo, porque nunca supo ser un ejemplo digno. Llega a gritar: “¿quién no está a disgusto con su cuerpo?” y “¡la locura está en todos!”. Padre y madre son personajes intensos, contradictorios y morales. Son racistas cuando ven a su hijo amigo de un negro; dejan de creer en la ciencia cuando constatan que no les va a devolver a Jacob, sino a una Céline Dion perfectamente moldeada a un cuerpo masculino. Entonces el padre va a cambiar: se va a convertir en autoritario. Aunque desemboque en ese cul de sac fulerazo, lo importante es el valor que cobra y las modificaciones que esto produce.

Bueno, no cuento más. “James Brown usaba ruleros” es tan lúdica como otras obras de Yasmina Reza, donde el arte, en este caso la música, puede ser lo único que te salve. Jacob se hizo un mundo que cabe en un metro cuadrado de la alfombra de su cuarto adolescente. Es la cantante de fama mundial, pero es también sus miles de fans, sus músicos, sus empleados, los groupies, los plomos, los sonidistas y los iluminadores que dan vida a sus recitales; la prensa de alrededor, la gente que viaja con ella en las giras, los kilómetros recorridos y las ciudades visitadas. Todo eso pasa por su cabeza y por su cuerpo cuando canta. Esta Céline Dion le gana, incluso, a la verdadera, porque no necesita a nadie, ni gasta un mango para poder ser. Puede irse de viaje a presentar su nuevo disco sin levantar un solo pie, sin mudarse de ropa. Está sola y entera, refugiada en su propio interior. “Felices los felices”.

En La Agenda revista. ¡Gracias, Pablo Perantuono!

18.11.24

LOS FAROS / PABLO DE SANTIS

 “Si de algo está orgullosa nuestra isla, es del mantenimiento de nuestros faros. Para evitar que la corrosión marina atacara los muros y llenara de óxido las piezas de hierro, se trasladaron los faros al interior de la isla, bien lejos del mar. Ahí llevamos a nuestros hijos durante las noches para mostrarles cómo las lámparas iluminan nuestros campos. Sólo muy de vez en cuando visitamos las costas y respiramos aliviados al ver que nuestros faros están bien lejos de esas olas enormes y de esos vientos imposibles. Antes de volver a la ciudad nos aventuramos entre las rocas para llevarnos de recuerdo los restos de algún naufragio.”

15.11.24

DÉCIMA JORNADA DE LA CLÍNICA DE CUENTOS DEL GALPÓN / VINO PABLO DE SANTIS

 

Brevedad y precisión. Toneladas de oficio periodístico y un camino en la novela infantil que lo llevó a ser más exacto en las historias, e ir siempre al grano del asunto. Y, como si fuera poco, una poderosa imaginación. Este es Pablo de Santis, un autor del que vinimos siguiendo el libro “Contar un secreto” (Tilde Editora) en estos días de la Clínica. Hay secretitos esparcidos como golosinas en la Milanesa, hagan la búsqueda del tesoro y léanlos, si todavía no lo hicieron. O vayan a sus cuentos. O a sus historietas. O, mejor aún, a sus novelas. Escribió tantas que siempre aparece alguna en tu biblioteca; lo probamos por acá. Memi tenía dos, Fabián más de veinte.

Pablo, tranquilo y amable, fue soltando verdades literarias entre empanada y vaso de vino. Le festejé el sutil manejo de los términos profesionales en “La sexta lámpara”, y dijo:

“Ojo con las jergas. Mi padre y mi madre fueron médicos. El nombre técnico de una operación de nariz es rinoplastia. Jamás le escuché decir a papá “mañana tengo una rinoplastia”. Más bien: “voy a hacer una nariz” o “mañana tengo un mentón”. De tanto escuchar en mi casa el mundo médico quizás pueda ajustar una jerga conveniente, porque puedo llegar a entender cómo hablan los doctores con los visitadores médicos y los combates entre los médicos de especialización y los sanitaristas; de niño me quedaban esas palabras en la memoria. El problema es cuando cambio de mundo. Si en arquitectura, un ambiente en el que no crecí, me hubiera puesto a tratar de copiar una jerga, seguramente la habría pifiado.”

En ese caso Pablo prefiere ponerse a inventar, como lo hace siempre que desconfía de una solución que viene muy a mano. Silvia Iparraguirre hubiera completado así el argumento de De Santis: “Si te metés mucho en un territorio de jerga que no conocés, corrés el riesgo de hacer del lenguaje una maqueta”.


Después Pablo leyó el cuento “La inspiración”, que pueden buscar en Internet (fue publicado por el Ministerio de Cultura en épocas mejores), y también nos hizo recomendaciones. En relatos ajenos: “Su ausencia”, de Horacio Quiroga, “Moralidad”, de Stephen King, “El hormiguero”, de Sergio Aguirre, “La especialidad de la casa”, de Stanley Ellin y “Conversaciones con mi padre”, de Grace Paley. En libros que no son de relatos: “Los oficios”, de Sara Gallardo y “Los vecinos mueren en las novelas”, de Sergio Aguirre. En cine: “Tales from the Crypt” y “Sleuth” (Joseph Mankiewicz), ambas de 1972.

Una hermosa visita la de Pablo, esperamos volver a verlo en el cierre del curso. Gracias: la pasamos muy bien.

Terminamos la clase hablando de la querida Inés Fernández Moreno, que se fue este fin de semana. Tenía 77 años. Parece que en los últimos minutos pidió comer huevos quimbo, un postre almibarado, y entre una amiga y su marido se lo hicieron. ¿Alguien quiere repetir? Inés, casi sin fuerzas, levantó un dedo y probó otro poquito. Ese detalle es hermoso.

Recordamos acá  su paso por nuestra Clínica de cuentos. 

Te quisimos mucho, escritora.

14.11.24

IL FIORE AZTECO / DANIELE MUSTO


 “Ecco il mio personalissimo circoletto rosso alla pagina 163 de Il fiore azteco - Gustavo Nielsen (Tempesta Editore. Traduzione di Giovanni Barone): la nonna del protagonista del romanzo, Fabio, raccontato nel momento dell'infanzia, poi in quello della gioventù, infine della maturità - questo è quello della maturità! - rivela al nipote di aver staccato, dal pannello della cassetta di scarico del bagno, l'immagine del fiore azteco, la figura di prestigio nella quale la valletta siede su di un tavolino apparendo al pubblico senza le gambe, oggetto delle sue fantasie sessuali - gioco di prestigio che letteralmente ossessiona il protagonista del libro fin dalla prima infanzia -, nel tentativo estremo di impedire al nipote di perdere tempo, e la vita, vita che la nonna intende nel senso del più classico soddisfacimento dei canoni borghesi di "trovare una brava ragazza, sposarla e mettere su famiglia", masturbandosi nel bagno per tutto il giorno (la nonna riferisce di averlo sentito entrare e uscire dal bagno anche trenta volte al giorno). Il passaggio chiave, emblematico della cifra stilistica della scrittura di Nielsen, sta nella parte sottolineata: "È per il tuo bene". Disse lei, e aggiunse, autoritaria, "Perché io avevo un nipote mago, e adesso è uno spettatore che vede passare la vita davanti a sé. Perché avevo un nipote sorprendente che teneva testa ai vicini, anche se sbagliava, e che mi faceva sentire orgogliosa comunque perché mi faceva ridere, che cazzo!" E si mise a piangere. Ma di rabbia, gettando a terra il telaio e sbattendo il ditale sul tavolo. Piangeva gridando. Gridando disse che le mancava la magia. Disse cazzo disse merda. Così, merda e merda e sbatteva il pugno sul tavolo, merda, merda e cazzo e merda.

La nonna si riferisce a quando il nipote, da bambino, nel garage di casa, davanti a pochi spettatori, tutti personaggi del vicinato, un microcosmo di quartiere che riflette un macrocosmo nazionale, mettendo in scena i suoi giochi di prestigio, sempre problematici e malriusciti, per quanto organizzati nei minimi particolari e col massimo impegno, comunque sia la facevano sentire orgogliosa. Di più; determinavano un vero e proprio riscatto morale, suo e di tutta la famiglia, che idealmente era il riscatto morale del quale avrebbe avuto bisogno l'Argentina post peronista colpita da una crisi politica e economica oramai senza via d'uscita.

È l'alto e il basso, il limite tra la tragedia e la commedia che si fondono in questo romanzo davvero bello, dove il dramma della vita, della malattia e della morte del suo migliore amico, Carlos, della povertà e della guerra (quella surreale, quindi devastante per l'orgoglio di un popolo già così pesantemente condannato dalla storia, delle Falkland) e del tempo che passa incurante di tutto e di tutti, per contrasto, è resa ancora più dolorosa dalla contrapposizione rispetto la, apparentemente, "leggera attitudine" umoristica del protagonista del libro, costantemente distratto da pratiche onanistiche continue e reiterate, e difettosi giochi di prestigio, che non sono solo bisogno di leggerezza, ma una vera e propria necessità di mistificare la vita per continuare a sognare, e quindi a esistere, nonostante tutto. "Gridando, la nonna disse che le mancava la magia", cosa c'è di più vero, e di più drammatico?

Un libro davvero bello.”

12.11.24

EL ANTIHÉROE / SYLVIA IPARRAGUIRRE


“Dostoievski es un espíritu religioso que busca a Dios, pero perseguido por el demonio. Ahora, ¿el demonio, qué es?, ¿es un tridente, son las llamas del infierno? No, el demonio es la contradicción humana, lo que llevamos dentro. Quiere decir: ni yo mismo puedo estar seguro de lo que soy capaz de hacer en determinadas circunstancias. Está la lección de Gógol en esto, llevada a límites dostoievskianos. Hoy decido matar a un ser humano, mañana me arrepiento y me pongo en el camino de la expiación. Es la malignidad de la duda, de la contradicción, la certidumbre de que la condición humana está hecha de un debatirse entre contrarios lo que aparece como novedad, casi inaceptable, en la novela de Dostoievski, dando paso a la imagen de la conciencia escindida del hombre contemporáneo: el antihéroe.”

11.11.24

EXPIACIÓN Y RESPONSABILIDAD / SYLVIA IPARRAGUIRRE

 

“Para Dostoievski el pecado nunca es de un solo pecador, somos todos pecadores: yo puedo creer que no peco, que no hago el mal, pero mis actitudes o mis ideas o mis actos pueden provocar que otro sí lo haga. Es una cadena de responsabilidades. Y esta idea, si reemplazamos la palabra “pecado” por “responsabilidad”, tiene más que ver con una ética que con una religión y tiene muchísimo peso, porque Dostoievski con Kierkegaard y Nietzsche van a ser el triángulo de formación de un pensamiento contemporáneo muy fuerte, que fue el existencialismo: no hay nadie que te diga si está bien o mal lo que estás haciendo; no existe la comodidad de Dios que te va a absolver porque te arrepentiste y podés volver a “pecar”, lo que te deja tranquilo; en la que el perdón de Dios viene a ser la coartada, lo que Sartre llama “la mala fe”. Parafraseando al existencialismo sartreano: el hombre es un ser arrojado a la libertad y debe elegir constantemente lo que debe o no debe hacer. En palabras de Nietzsche: “Dios ha muerto” y no hay premio ni castigo. Sólo nosotros, asumiendo la dimensión de lo que hacemos.”

9.11.24

ECHANDO UNA MONEDA EN LA RANURA / SYLVIA IPARRAGUIRRE

“1950, en California. Sentada en un banco de la biblioteca de la universidad local, espero. Es la hora de la siesta y salvo yo no hay nadie en el salón. En medio del silencio, roto por algún aletear de palomas o algún grito lejano, se abre con ruido la puerta y entra un hombre joven, de anteojos gruesos y pantalones bermudas color caqui. De expresión amistosa y sonriente, su frente lleva la inscripción “Bueno con los perros”, que algunos vemos. Californiano y solar, me sonríe; sabe que no puedo estar ahí, pero nada es imposible en el horizonte que lo circunda, y existo como parte de un mundo paralelo. Sin apuro -es un prestidigitador que sabe que maravillará a la audiencia-, Bradbury saca una moneda del bolsillo y me la muestra en el aire. Con irónica precisión, como si realizara una operación peligrosa, la echa en la ranura. Se oye un tintineo luego un estrépito seco y mecánico; se ha soltado el cepo que traba la Underwood a la mesa y el reloj echa a andar: a diez centavos la media hora. Ray abre los brazos, palmas adelante, como quien dice: ¡Ya está!, o ¡Voilá!, y se sienta a teclear como un desaforado. Fahrenheit 451 le costó nueve dólares con ochenta centavos. Bradbury es pobre, casado y con dos hijas, y en su casa, de módico alquiler, no tiene lugar para escribir. Y de eso vive la familia; de las prodigiosas historias que salen de sus manos con la naturalidad con que se pela un maní. Del rumor parejo de las teclas se  elevan mundos como hologramas que flotan en el espacio sobre su cabeza que ya es el negro espacio sideral y el Planeta Rojo y el hombre ilustrado y los mendigos de Irlanda y las doradas manzanas del sol y Picasso trazando en la arena un dibujo que se llevará el mar y la casa automática funcionando para nadie en un mundo abandonado y marcianos repitiendo un poema de Byron y oleadas de negros felices yéndose a Marte y astronautas disparados hacia la muerte en la nada infinita.

Y la eternidad esperando.”

8.11.24

NOVENA JORNADA DE LA CLÍNICA DE CUENTOS / TERROR INADVERTIDO EN EL GALPÓN ESTUDIO


 Comenzamos noviembre muy tranquilos, con un reencuentro con nuestros viajeros Memi y Fabián y la preparación de los eventos para lo poco que queda de Clínica 2024. Hasta la cena fue compartida: Gaby mandó sanguchitos de milanga y de pollo, aunque no pudo venir (pero, como lo había prometido, lo hizo: chica con códigos) y yo cociné una tarta Olga (los que alguna vez hayan adelgazado con Scarsdale saben de qué hablo). Memi nos trajo de Sicilia una caja de Baci -croccante nocciola intera creati con amore- que sirvió de postre. Los bombones vienen con mensajes, como los Dos Corazones pero filosóficos. Fabiana seleccionó el siguiente, de Emerson, para que la cita fuera bien seria (en la Clínica no comemos vidrio, sino fondente 70% intenso de Perugina): “Tutta la vita é un esperimento. Piú esperimenti fai, meglio é” (leer, porfa, con las tildes al revés). Fabiana y Fabián pusieron los vinazos, un Salentein reserva y un D V Catena. Como ven, no nos privamos de nada.

En las lecturas comenzamos a prepararnos para recibir a nuestra personalidad literaria del mes. Como estuvimos leyendo (y posteando, aquí y allá) textos del libro “Contar un secreto” de Pablo de Santis, lo invité y vendrá el miércoles 13. Alegría de los cronopios y las esperanzas del Galpón. Estudiamos el capítulo completo referido a las dos narraciones de un cuento, y fuimos a buscar los datos que faltaban en “Formas breves”, de Piglia. Además leímos tres cuentos de “Trasnoche”: “El caballo de porcelana” (mi preferido de Pablito), “La pieza ausente” y “El piso de arriba”. Admiro la prosa precisa y serena del colega, va a ser un honor tenerlo como invitado. Mi novela favorita sale en la foto.

Sucedió también algo asombroso. Pablo de Santis dice en su texto que la primera vez que se publicó la "Tesis sobre el cuento" de Piglia fue en el suplemento "Cultura y Nación" del diario Clarín de un 6 de noviembre del siglo pasado. Lili advirtió que estábamos en el mismo día, treinta años más tarde. O sea: el azar hizo que lo leyéramos en el cumpleaños de la publicación (una posibilidad entre trescientas sesenta y cinco). En cuanto me quedé solo consulté la Quinela de la Ciudad de Buenos Aires, para saber qué número había salido antes de entrar a la sala de reuniones donde hacemos nuestros encuentros con cenitas. Acertaron, salió el 6. Vespertina: 2776. Uf.

 Pudimos hacer una sola corrección; le tocó leer a Mariano. El cuento se titula provisoriamente “Es lo mismo”, y quiere marcar con esa frase coloquial el signo de los que se creen victimarios, pero van a ser víctimas. Es un cuento con demonios, eso a mí me interesa, aunque tiene que manejarlo más a lo Zulavski, con mayor sutileza. Además debe equilibrar los bloques: no puede tener tres carillas de introducción y tres de desarrollo. Deberían ser una y cinco, o algo así. En el cuento hay un Hamelin que también debería desarrollar un poco más: recordar que el Hamelin original lleva a las ratas a desbarrancarse. Buena la idea de la carpa de circo. 

Un cuento con el diablo más tres seis de coincidencia dan para meter miedo a cualquiera. Digan que uno no cree en nada, que si no. Con todo, tuvimos una jornada sin sobresaltos que sirvió para ajustar las actividades que vendrán, además de la próxima visita. El miércoles 20 tendremos maratón de correcciones y el 27 una teórica del profesor Julio Acosta sobre personajes en la ficción. Y la fiesta después, para la que están anunciados Lamberti, Guille Martínez, Brenda, Moira Sanjurjo, Patricia Espinosa, Belén Wed, Kamiya, Iparraguirre y otras beldades. Bailaremos tregua y catala.

6.11.24

UNA CONVERSACIÓN CON SYLVIA IPARRAGUIRRE / ALEJANDRA KAMIYA

"A veces no leo los prólogos. O empiezo a hacerlo y los abandono o me siento abandonada por ellos de algún modo. Sobre todo si intentan indicarme cómo leer. 

Algún prólogo me ha gustado más que el libro del que hablaba. Peter Orner dice que desconfía de ellos, que son un último recurso para influir en la lectura. Lo dice en un prólogo.

Creo que a veces son la demora inútil de un encuentro y otras, el perfecto momento previo. “Si vienes a las cinco, comenzaré a ser feliz a las cuatro”, dijo un zorro cuando yo tenía ocho años.

Hay algunos que arman el contexto histórico como una escenografía y se hacen así parte de lo que sigue.

Pero creo que los textos hablan por sí solos. Como si se tratara de estructuras edilicias deben sostenerse por sí mismos. Me refiero, por supuesto, a los textos que nos importan, los buenos.

Este prólogo es más que ninguno, innecesario. Los cuentos de Sylvia Iparraguirre hablan por sí solos y los hacen con una voz clarísima.

Innecesaria yo, aquí estoy.

 

Conocí a Sylvia al entrar al despacho de Abelardo Castillo en su casa de Balvanera. No, aún no había entrado, eso lo hice años después. Aquella vez espié desde fuera, y alto, sobre una de las bibliotecas vi dos fotos en blanco y negro de una chica rubia, muy joven, de pelo lacio, mirando hacia arriba.

Después me di cuenta de que esa chica era la misma mujer que la de la foto frente a la mesa con el paño verde en la que tenía lugar el taller. En la biblioteca, junto a la cédula papal que juraba excomunión para el que robara un libro de allí, Abelardo y la mujer rubia reían muy juntos. Quiero decir: los cuerpos formaban una especie de V, como si salieran de un mismo centro y se abrieran a los lados, en el estallido que implicaba la risa.

En los años que siguieron nos recibió a la entrada del taller, o pasó junto a la mesa en la que estábamos diseccionando algún cuento, a veces apurada saludando con una mano en alto, otras, ofreciendo un café que siempre venía bien. A veces planteaba temas de discusión o sugería lecturas (así leí La plaza diamante de Mercé Rodoreda, por ejemplo). También traía sus textos y escuchaba, como si fuera una más, nuestra opinión.

Otras veces acudía al llamado de Abelardo. Para recordarle cómo habían comprado un original de Hogarth Press del grupo de Bloomsbury o cómo era una anécdota que podía incluir a Borges, a Bioy o a Bradbury.

Los motivos también podían ser extraliterarios. Como un día en el que, con las manos en los bolsillos de su jean, con los hombros ligeramente levantados, él la llamó y señalando un sweater azul sobre el respaldo de un sillón, dijo.

-          Sylvia, decime ¿ese sweater es mío?

-          Sí, Abe- respondió ella asomándose por la puerta doble que daba al patio interno.

-          Qué suerte, porque tengo frío- dijo él, acercándose al sillón.

Ella estaba siempre impecable, su pelo, su ropa, su maquillaje. Se corría los mechones del costado de la cara con la punta de los índices.

Una vez debí dar una clase sobre literatura japonesa para todo el grupo. Ella quiso asistir. De la clase que di no recuerdo mucho, pero sí un brevísimo diálogo que tuvimos ella y yo. Yo hablaba de un haiku. Había un bosque y había un hombre que entraba en él, y luego una frase a desentrañar que tampoco recuerdo. “¿Qué es lo que pasa y qué es lo que permanece?”, pregunté, pensando que así iba a inducir un rumbo. Para mí la respuesta era obvia pero no quería ser yo quien hablara.  Todos permanecieron callados y solo la voz de Sylvia asomó diciendo: “El hombre permanece, el bosque pasa”. En ese momento comprendí lo cerrada que había sido mi visión y me interesé por lo que estaba ocurriendo. Ella me explicó su idea y yo la mía, y fue lo que me llevé de aquella clase.

Otra noche (al taller se iba de noche) ella, para quien el bosque pasaba, había ido a la esquina a plantar un ficus, intentando ocultarse en la oscuridad, y con la ayuda de un vecino. Ahí estaba, plantando un árbol porque había un hueco de tierra disponible.

Pero ella tenía otro árbol, un roble enorme, propio, en San Pedro. Ella misma lo había plantado, bajito y delgado. Una vez fuimos y nos sacamos una foto debajo. Esa noche salimos a caminar porque las noticias decían que la distancia entre la luna y la tierra iba a ser mucho menor que de costumbre. No sé si fue así, pero caminamos mirando la luna y señalando adornos kitsch en los jardines, pequeñas fuentes, enanos, piezas de yeso o plástico.

La noche terminó con el rescate de un perro, como les había ocurrido otras veces a ellos. Abelardo hasta había escrito una carta al municipio en defensa de tres perros de la calle, Olivia, Negra y Bartolo. Otras veces el rescate no era posible y Abelardo le decía, “Tomate un vasito de agua”, cuando la veía a punto de llorar.

Mientras tanto yo iba leyendo sus libros. O debería decir iba leyéndola porque cuando uno lee lo que lee es a una persona que se nos ofrece con una especie de amor o inocencia.

Tres veces ella se asomó desde la puerta doble que daba al patio, dijo mi nombre y me pidió que dejara la mesa del paño verde para ir a su espacio, donde tenía sus libros, su escritorio. Las dos primeras veces hablamos de escritura, la tercera, me mostró un collar que le habían regalado en Noruega y un borrador de la novela en la que estaba trabajando.

Cuando yo ya había dejado el taller, las ocasiones fueron más sociales: eventos en aquella casa o fuera. Una vez fuimos Inés Fernández Moreno, ella y yo a conocer el barrio y el edificio donde había vivido Cortázar cerca de la Facultad de Agronomía. Terminamos en un barcito y ella habló de la fábula y el sujeto de los formalistas rusos. Mucho tiempo después yo le conté fascinada sobre La situación y la historia de Vivian Gornick. Ella la había leído antes de que fuera traducida y el tema era aquél que habíamos tratado en el bar Rayuela.

Hace unos años recibí un llamado y corrí a la casa de Balvanera. Abelardo Castillo había muerto. Lo subieron en una camilla por la escalera de mármol. Ella iba detrás. La abracé y sentí que se deshacía. No es una metáfora: parecía haberse vuelto de algo casi transparente, parecido al aire.

Después volví a verla cada 27 de marzo, para celebrar el cumpleaños de él aunque no estuviera. Esto sí es una metáfora, porque en verdad él estuvo en cada uno de esos encuentros.

La vi también en los diarios de él, en entradas como esta:

“Lo único que me ata a este mundo es Sylvia, y mi gato Agustín”, o “Pensar siempre en ciertos pequeños gestos de Sylvia, en cómo saluda desde el tren con la mano”, “Sylvia me dijo que dipsómano, en griego, quiere decir sediento, o el que tiene sed. Es un título para novela, sin duda”, “Fin de año solos con Sylvia en casa. Tranquilidad, sosiego y una secreta alegría. Lo demás, es el mundo.”

Más tarde también en algunos poemas de La fiesta secreta.

En el último cumpleaños, alrededor de la mesa de paño verde, con sándwiches de miga y una torta de chocolate que le gustaba a Abelardo, nos reímos mucho. No recuerdo las anécdotas, además ya las repetíamos año a año. Disfrutábamos de hacerlo, de saber que el otro ya conocía el remate que estábamos por dar, o de armar entre varios un mismo relato como si fuéramos uniendo pedazos. Todo se volvía predecible por un momento. Así es en los rituales, creo.

Hasta que algo se fue aquietando y ella dijo:

“A veces a la noche, cuando no puedo dormir, me levanto y voy a la biblioteca (de Abelardo), y miro los libros, los toco, saco uno, leo una línea, vuelvo a guardarlo y así me la paso”.

”Siempre me sorprendo”, agregó.

Lo dijo con una voz distinta, ella que siempre habla como si estuviera invitándolo a uno a una fiesta, lo dijo como si estuviera por quedarse dormida junto a un fuego.

Pensé que eso era una especie de conversación. Abelardo está en esos libros, yo lo sé. Están llenos de notas y de cada uno de ellos nos habló en el taller o donde fuera.

Cuando se cortaba la luz, Abelardo y Sylvia se sentaban a charlar sobre libros esperando que la luz volviera. Eso lo contó él en una entrevista. Yo sé que no hacía falta que se cortara la luz para que lo hicieran: hablaban de libros todo el tiempo. Y eso hace Sylvia cuando no puede dormir y va a la biblioteca.

Hace unos meses la vi en la presentación de sus maravillosas clases de Literatura Rusa. Ella no lo sabe pero le dio imagen a una música que yo llevo en mí, que me dio mi padre y a él su madre. Los cantos de los remeros del Volga, decía yo antes. Ella contó que son sirgadores, que después de la liberación de los siervos, no tenían cómo vivir y debían seguir pagando un canon al terrateniente, sin herramientas, ni animales ni ningún recurso más que sus pobres cuerpos. Así, tirar con sogas de los barcos para que no encallaran se volvió una forma de obtener unas monedas para intentar sobrevivir. De nuevo, me enseñaba algo sin saberlo.

La última vez que la vi conversamos brevemente sobre El Sur de Borges, sobre la posibilidad de que Dahlman estuviera al mismo tiempo en el hospital y en el campo saliendo a pelear a la llanura con un cuchillo que no sabrá manejar. Yo estaba circunstancialmente arriba de un escenario y ella en la tercera fila del auditorio para mi asombro lleno, pero fue como si no hubiera nadie. Estábamos solo ella y yo continuando esta charla que la vida interrumpe e igual vamos teniendo.

Aunque nunca converso con ella tanto como cuando la leo."

5.11.24

DOSTOIEVSKI Y DIOS / SYLVIA IPARRAGUIRRE


 “Lo que atormenta a Dostoievski es la duda sobre la existencia de Dios. La pregunta es: ¿cómo si Dios existe permite lo que les sucede a los pequeños niños rusos, víctimas inocentes de todas las maldades adultas y carencias, con padres alcohólicos, mendigando en las calles, abandonados, muriendo de hambre y enfermedades? Sus libros son el reflejo de esta realidad que lo atormenta, potenciada por el hecho de que su pequeño hijo Alexei muriera a los cuatro años de epilepsia, algo que se culpaba de haberle transmitido.

Ahora bien, si éstas son algunas de las condiciones del contexto que compartieron nuestros autores, otra cosa es lo que tanto Gógol como Dostoievski y Tolstói consiguieron hacer con el género novela, a partir de él. A qué alturas lo llevaron y de qué recursos técnicos literarios se valieron para dar obras que influyeron decisivamente en la literatura del siglo XX, y hasta hoy. Cuando hablamos del realismo de Dostoievski advertimos que sus novelas son “realistas” hasta que se internan en los oscuros pasadizos de los delirios, imaginaciones neuróticas y crisis existenciales de sus personajes, donde las etiquetas dejan de tener sentido. El mismo autor considera que el delirio y lo fantástico son parte de la realidad. 

Dostoievski, al igual que Tolstói, no es una lectura, es una experiencia. Esta frase que puede parecer hueca o frase hecha, encierra la más básica de las vivencias: cuando se los lee pasan a formar parte de nuestra vida cotidiana, están en nuestras mentes y sus personajes nos acompañan a veces con mayor intensidad que la gente real.”

4.11.24

EL CAPOTE, DE GÓGOL / IPARRAGUIRRE



 “Al límite de sus fuerzas, Akaki vuelve a la pensión y se acuesta; poco después muere, como si se apagara una vela. El cuento podría haber terminado en este punto y ser una historia patética, que sin duda nos conmovería. Pero hete aquí que este no es el final; poco después comienza a circular por San Petersburgo un rumor: un fantasma recorre las calles nocturnas por la zona donde fue asaltado Akaki en busca de quien le robó el capote. Este fantasma trepa una noche a la troika en que va la “alta personalidad” a casa de su amante para arrancarle el abrigo y desaparecer. Desde entonces, la gente temerosa evita esos barrios. El cuento concluye con la visión del supuesto fantasma por un vigilador nocturno, y comprobamos que es un hombre que al final levanta el puño en el aire, antes de desaparecer.”

1.11.24

OCTAVA JORNADA DE LA CLÍNICA DE CUENTOS DEL GALPÓN ESTUDIO / ¡INVITADA DE LUJO!

 


La amamos. A Sylvia, con y. La dulce Iparraguirre, la inteligente, la sabia, la bonita. Amorosa, ella, con todos nosotros, sus lectores. “En el invierno de las ciudades”, “El parque”, “La Tierra del Fuego”, “El país del viento”. Sus “Clases de literatura rusa”, que vengo posteando brevemente en Milanesa. Ella. Siempre sonriente, amable, divertida, cariñosa. ¿Qué más puedo agregar? Fue uno de los hits en la historia de la Clínica de cuentos del Galpón Estudio. Una maravilla de reunión. Quedamos felices y pipones de literatura, empanadas y vino. Va a ser una jornada difícil de empardar. Qué afortunados fuimos anoche.

Al final respondió a mi pregunta acerca de cuál era su mejor cuento a su criterio, con una respuesta similar a la que hubiera dado Castillo ante la misma circunstancia. Eso lo tienen que decidir los lectores, no puedo ser juez si soy parte. O algo así. Pero Castillo se hubiera detenido ahí con la respuesta, y ella no. Ella eligió varios cuentos. No puedo uno solo, dijo. Y anotó estos títulos preciosos: “Toda una tarde de la mano, al costado de la vía”, “Un día de abril”, “Encontrando a Celina”, “El pasajero en el comedor”, “La noche de San Juan”, “El faro”, “La tormenta” y las crónicas “Mi tía y Madonna”, “Mi madre vs Homero” y “Puebla de Lillo, España”. El de abril y el de España hablan de su abuela Vicenta. En el devenir de la elección decidió optar por los relatos realistas. Yo hubiera elegido los experimentales: “Eva”, “Schygulla en la madrugada”, “Probables lluvias por la noche” (del que soy fan). Hablamos de todos, realistas y experimentales; los presentes estaban empapados de la obra de la escritora y le sacamos el jugo a la forma literaria.

“Si vos querés pintar un personaje de un nivel social educativo menor o mayor y lo llenás de modismos, lo amaquetás: deja de ser un personaje para ser una figura, una caricatura. Estuve mucho tiempo eligiendo la palabra que el soldado le dice a Jorgelina en el tren. Las chicas tienen esos nombres tan sonsos, como Marta, como Alicia… En cambio este nombre es tan… -el soldado se queda pensando y dice atípico. “Atípico” no le cae a ese personaje. En cambio, “insuficiente”, puede ser una palabra que haya pescado de algún lado para hacerse el importante. Esa calibración milimétrica es la que construye el personaje.”

Está hablándonos de “Toda una tarde de la mano…”, aunque analizó de la misma manera cada uno de los textos que fuimos convocando. Sigue Sylvia:

“¿Qué le faltaba a este cuento como plomada? Viste lo que dice Piglia que hay dos historias (no digo que sea siempre así, pero sucede en este caso). Jorgelina viene de algo que le pasó con el marido que no está explotado, que no se sabe, pero intuimos que es algo malo. En la versión primera del cuento digo simplemente que el marido es pintor, en la nueva lo escenifico: se imaginó a Nicolás frente al caballete, bla bla bla; mejor no pensar en eso. Le di más elementos al lector para que sepa que ella viene de una situación conflictiva. Nicolás la dejó en la estación y ella se lo imagina volviendo, entrando a la casa a un cuarto desordenado: han tenido una discusión, algo está alterado. Estas son pistas para que el lector recoja la historia subterránea y la complete como pueda. Por debajo corre la historia de una mujer de treinta años con un hombre mayor, a la que el soldado le pregunta ¿ese que te vino a despedir es tu papá?  La pregunta es una estocada. Y ahí viene el otro cuento, lo que habla con el soldado, la relación que el soldado inventa para celarla, tal vez, o justificar su existencia de alguna manera. Y, sobre todo, viene el final, donde el soldado le confiesa yo sabía que ese hombre no era tu papá. Ahí se emparejan las dos historias; la de superficie, que es la conversación en el tren, y la de Jorgelina con su marido despidiéndola desaprensivamente en el andén.”

Anoche hubo tres horas de lecciones de corte y corrección. ¡Al fin se aprende en este taller del demonio! Iparraguirre también habló de El escarabajo de oro, de la editorial Galerna, de Borges, de Bradbury, de Houston, de Picasso, de Polanski; del día en que conoció a Larry Ferlinghetti y a Carol Oates; del Ulises y de El Ornitorrinco, del pensionado de las monjas, de los masones, de las cartas de Cortázar, de Junín y de Buenos Aires, de Gógol y Dostoievski y de sus proyectos nuevos. Y de Abelardo, mucho y con mucho amor (y humor). 

Qué emocionante fue tenerte con nosotros, querida Syl, además de sustancioso. Gracias, gracias, gracias.